martedì 25 novembre 2008

20.000 in meno (diario di una crisi annunciata)

Oggi sono stato a Londra, alla British Library - più che una biblioteca, un'istituzione, un "luogo" affascinante.
In programma avevo un incontro - o meglio un "training" - aperto a tutti i dottorandi in storia contemporanea del paese. Oltre a dei laboratori tematici (per es. sulla storia orale, o sui manoscritti conservati nella BL), la giornata offriva l'occasione di conoscere altri studenti, per scambiarsi idee sui progetti in corso (quello che qui viene chiamato "networking"). Le sessioni a cui ho partecipato sono state decisamente interessanti, e ho avuto modo di incontrare persone che si occupano di temi simili al mio. Così ho scoperto che la BL ha digitalizzato e messo on-line, accessibile a tutti, una collezione di ben 48 quotidiani britannici dell'Ottocento. Oppure che la biblioteca conserva anche un'ampia serie di interviste e fonti per la storia orale, in parte ascoltabili direttamente dal catalogo. E poi ci hanno offerto caffé e biscotti. Insomma, una giornata "diversa" (negli ultimi tempi mi ero immerso nella ricerca per il PhD), spesa bene.

(per chi fosse interessato ad approfondire: http://www.bl.uk/ )

Mentre tornavo a casa, su uno degli ormai "classici" giornaletti della free-press ho avuto modo di leggere una notizia sconcertante: nell'ultima settimana in Inghilterra hanno perso il lavoro 20.000 persone. Sì, esatto: in una settimana. (http://itn.co.uk/news/a36b302a9f113e46f83b2f53e834aadd.html) Il clima qui è davvero pesante: basti pensare che alcune catene di grandi magazzini, come Marks and Spencer hanno lanciato campagne in stile saldi tutt'altro che natalizie, come un taglio del 20% dei prezzi su tutti i prodotti in determinati giorni. (http://www.reuters.com/article/rbssConsumerGoodsAndRetailNews/idUSLI50638220081119) Uscendo nei giorni di "tradizionale" shopping (sabato e domenica), in effetti, si vedono sempre tante persone in giro, ma decisamente poche buste/sacchetti etc. Il paese si prepara a una lunga fase di recessione - e io ci sono capitato proprio in mezzo!

In quest'atmosfera, non mi resta che riaffermare la mia speranza che questa crisi sia di lezione per il futuro, e che l'egemonia neoliberista ne esca definitivamente intaccata. Purtroppo, non sono sicuro che le cose andranno così. Tutti i governi stanno accantonando le vecchie politiche di taglio della spesa (in UK sta per essere varato un piano che prevede una riduzione del 15% dell'IVA, che avrà costi enormi per le casse statali), ma ho l'impressione che il modo in cui i soldi pubblici vengono usati sia quanto mai "privatistico". Non si va molto oltre il salvataggio delle imprese bancarie e finanziarie (ma presto anche di quelle industriali, penso) con denaro pubblico. Ci vorrebbe una visione diversa, strategica, neokeynesiana dell'economia. Non mi resta che sperare, appunto, nel Messia.

giovedì 13 novembre 2008

Il Messia

Riprendo a scrivere dopo diversi giorni di assenza. Nel frattempo, Barack Obama è diventato Presidente degli Stati Uniti. Come potete verificare pochi post sotto, non ci speravo.

Il modo in cui Silvio Berlusconi ha commentato questa svolta di portata storica è stato quanto mai singolare. Eppure, stavolta Berlusconi ha anche detto qualcosa di sensato. "Obama è stato presentato come un messia, speriamo non deluda". E' vero, le aspettative nei confronti del nuovo Presidente degli Stati Uniti sono enormi.

Inizio dicendo cosa penso che sia irragionevole aspettarsi da Obama. Non credo che sia possibile una svolta sostanziale nella politica estera statunitense. Certamente spero, anzi sono convinto, che la nuova amministrazione democratica non scatenerà nuove guerre (in particolare, conflitti di terra tipo Iraq e Afghanistan), a meno che non avvenga qualcosa di "eccezionale" (in negativo). Tuttavia, la politica estera è molto condizionata da esigenze di carattere strategico, a cui Obama non potrà sottrarsi. Inoltre, un presidente accusato di essere un "socialista" difficilmente potrà scoprire il fianco mostrando un'eccessiva debolezza verso regimi decisamente antiamericani come quello iraniano, così come è inverosimile che Obama rompa l'asse privilegiato tra Usa e Israele prendendo le parti del popolo palestinese (in questo senso, l'accusa rivolta a Obama di essere un musulmano sotto mentite spoglie risulta ulteriormente condizionante).

Allo stesso modo, non credo che Obama potrà avviare battaglie di carattere culturale, tipo quella per l'eutanasia o per l'introduzione a livello federale dei matrimoni gay. In questo senso pesano negativamente i risultati dei referendum svoltisi in concomitanza con le elezioni, che hanno visto uno stato "progressista" come la California esprimersi, sia pur di misura, contro le unioni omosessuali. Piuttosto, è lecito aspettarsi che Obama ponga un freno deciso alla deriva reazionaria dell'amministrazione Bush, soprattutto nelle prossime nomine per la Corte Suprema.

Quello che è lecito aspettarsi, invece, è una netta cesura sul terreno della politica economico-sociale. E' su questo piano che ci sono tutte le precondizioni perché il vento cambi. Già da alcuni anni il trend predominante nelle opinioni pubbliche occidentale è quello a una rivalutazione delle tradizionali politiche "di sinistra" (o meglio keynesiane) in ambito di politica economica. La crisi economica che investirà l'intero Occidente nei prossimi mesi rafforzerà ulteriormente il crescente desiderio di protezione sociale da parte dei cittadini americani, e più in generale occidentali. Basti pensare che qui in Inghilterra è previsto che la disoccupazione passi dall'attuale 5,8% a ben più critico 8,5% entro la fine del 2009. Attualmente, ogni giorno circa 1.000 lavoratori inglesi perdono il posto. Anche negli Usa la crisi di colossi come la General Motors rischia di innescare una reazione a catena che potrebbe portare alla disoccupazione centinaia di migliaia di persone.

In questo contesto, ci sarà una forte attesa, non solo da parte dei cittadini, ma anche da parte delle stesse imprese, per un intervento deciso dello stato nell'economia. Ora, questo potrebbe assumere caratteri inquietanti se l'amministrazione Obama decidesse di battere una strada di tipo "protezionista", basata su un sostegno pubblico alle imprese tradizionali. Si verrebbe a mettere in discussione l'alto livello di interdipendenza che oggi caratterizza tra le economie dei paesi occidentali e quelli dei paesi emergenti, ponendo le premesse per un inasprimento delle relazioni internazionali. L'alternativa, cui ho già accennato in un altro post, è un intervento pubblico che sia volto a una modernizzazione "verde" del sistema produttivo. Riconvertire in termini ambientalmente sostenibili non solo le industrie, ma anche le case e le automobili di centinaia di migliaia di occidentali potrebbe rappresentare un'ottima opportunità per rilanciare il sistema economico mondiale. A questo progetto andrebbe accompagnato un investimento massiccio nel campo dell'istruzione e della ricerca, settori "postindustriali" dotati di una reale produttività (a differenza della finanza, che come è stato dimostrato non è altro che un pericoloso "gioco di prestigio" in cui si fa comparire denaro dove non ce ne è).

E' quindi sul terreno della politica economico-sociale che mi aspetto di vedere come il Messia dei nostri tempi (ma io mi accontenterei di un nuovo Franklin Delano Roosevelt) sarà in grado di fare.

(per un'analisi di taglio diamentralmente opposto guardate:
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000731.html )

lunedì 27 ottobre 2008

E' finita.

E' finita, come prevedibile. Venerdì deve andarsene. Dove, nessuno lo sa. Ha un biglietto di ritorno, ma non mi sembra intenzionato a volerlo utilizzare. Spera di tornare l'anno prossimo, la vedo dura. Non si laureerà in Inghilterra. Non diventerà nemmeno un "prete dei bianchi". Non sarà più uno studente volenteroso. Tornerà ad essere un dannato della terra, o un fuggiasco in terra straniera. Senza tutti quei diritti che noi abbiamo, senza averne alcun diritto più di lui. Senza tutto quello che noi abbiamo, solo perché siamo nati qui. Lo Stato-nazione è la più grande menzogna, e la più grande rapina, degli ultimi secoli. La sua funzione principale è quella di difendere i pochi che hanno dai molti che non hanno. Per "diritto di sangue". L'Occidente è molto civile, no?

(Per chi è un neosensibilista)
"Gli abbiamo davvero preso tutto. Gli abbiamo preso tutto."

sabato 25 ottobre 2008

"Lavorare di più, in più e più a lungo"

Questa sarebbe, secondo il vicedirettore generale della Banca d'Italia Ignazio Visco (che non ha nulla a che vedere con l'ex diessino Vincenzo Visco), la ricetta indispensabile per garantire la tenuta del sistema economico italiano nei prossimi anni. Le dinamiche demografiche (in particolare, l'invecchiamento della popolazione) imporrebbero un incremento della produttività realizzato, banalmente, attraverso un maggiore sfruttamento della forza lavoro. Curioso che Visco sostenga che l'obiettivo di questo aumento del carico di lavoro individuale sarebbe finalizzato al "mantenimento e l'espansione del livello di vita raggiunto nel nostro paese". Vale a dire: per garantire un maggior benessere, è necessario che le condizioni di lavoro peggiorino. Logico, no?

Che questo punto di vista venga espresso da un alto funzionario della Banca d'Italia, con uno stipendio presumibilmente a diversi zeri, non deve stupire. Senz'altro a gente così non dispiace affatto la prospettiva di poter continuare a mantenere intatto il proprio reddito, e la propria condizione di potere, sino al capezzale. Sarebbe interessante che Visco andasse a spiegare questa sua prospettiva a un metalmeccanico cinquantenne, o a un lavoratore di call-center precario trentenne, sicuramente lavori gratificanti (e affatto logoranti) come il suo.

Inoltre, è singolare come si continui ad ignorare che un requilibrio della struttura per età della popolazione sarebbe possibile. Basterebbe una politica migratoria più aperta e introdurre una serie di misure di sostegno alla natalità più intelligenti (anzi, meno stupide) di quelle attuali.
In questo, qui in Inghilterra sono assai più avanti: basti pensare che un recente studio di Eurostat ha messo in evidenza come la Gran Bretagna sia il paese del continente destinato al migliore trend demografico, aumentando la propria popolazione dai 61 milioni attuali a ben 77 entro il 2060. Un'ottima performance, dovuta prevalentemente al contributo degli immigrati pachistani e indiani (che non vengono qui solo ad aprire negozietti o ristoranti, ma anche a fare gli ingegneri informatici, come ho scritto sotto riguardo alla mia amica dello Sri Lanka).
Anche la Francia dovrebbe vedere la propria popolazione aumentare in misura sostanziale, passando di qui al 2060 da 60 a 72 milioni di abitanti. In questo caso giocano un ruolo positivo soprattutto le ottime misure pronataliste transalpine (che non hanno nulla a che fare con i mitici 1.000 euro per bimbo introdotti dal governo Berlusconi II).

Tra l'altro, è singolare come sia in Francia sia in Inghilterra questa situazione oggettivamente migliore NON abbia impedito l'affermarsi di correnti di pensiero economicistiche alla Visco. L'aumento dell'età pensionabile e dell'orario di lavoro è un fenomeno generalizzato in tutto il mondo occidentale sin dagli anni '70 (nonostante il buon Jospin in Francia avesse introdotto le 35 ore di lavoro). Ma allora, non sarà che dietro questa analisi "tecniche" si nasconde dell'IDEOLOGIA, la solita, trita, FALLIMENTARE idologia neoliberista? Quell'ideologia neoliberista che porta alla creazione di posti di lavoro o da "sottoproletariato postindustriale" (call-center e McDonald's) o fittizi, tipo quelli nel settore bancario/finanziario (in questi mesi è venuto fuori come funzionava la finanza mondiale: una specie di maxicatena di Sant'Antonio in cui si mettevano in circolazione crediti inesigibili).

Ci vuole un cambiamento di paradigma, bisogna tornare a dare maggiore attenzione alla giustizia sociale e al rispetto degli individui come lavoratori. Altrimenti, il rischio di una deriva delle società occidentali verso un modello di tipo marxiano, con una elites relativamente ristretta di "capitalisti" e una gran massa di proletari diseredati, è molto ampio.

Chiudo citando il sociologo francese Emmanuel Todd:

"Dobbiamo smettere di ragionare in bianco e nero, non si può non essere preoccupati da quanto vediamo. Un collasso delle banche o della produzione, con la conseguente disoccupazione, sarebbe tremendo, ma non sarei certo contento da un ritorno al business as usual. Uscire da questa situazione per me significa andare verso più equità e più redistribuzione della ricchezza. Questa, come ogni crisi, può essere terribile oppure un passaggio necessario verso la scoperta della soluzione: è allo stesso tempo piena di pericoli e opportunità."

(fonte: Repubblica.it; http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/spettacoli_e_cultura/todd-intervista/todd-intervista/todd-intervista.html)

mercoledì 22 ottobre 2008

Il "prete" (?) africano

Sulla politica economica e sociale del governo Berlusconi ho già detto quello che pensavo. L'unico appunto ulteriore è che mi sembra evidente che mister B. sta cercando di fomentare tensioni di vario genere. E' bene non cascarci. La protesta sta montando, è necessario allargare la solidarietà intorno ai manifestanti, non isolarsi.

Passo a raccontare un episodio che riguarda il mio coinquilino africano. Preciso che mi limiterò a ricostruire i fatti come sono andati, senza aggiungere nulla di personale.

L'altro giorno incontro il mio vicino di stanza in cucina, e ci mettiamo a chiacchierare. A un certo punto lui mi chiede qual è il salario medio in Inghilterra. Io rispondo che penso si aggiri intorno alle 2.000-2.500 sterline al mese (in realtà è più basso, intorno ai 1.7-1.800 ma lui si riferiva a persone qualificate). Lui dice di non crederci. E' visibilmente deluso. Dice che gli ho sconvolto i piani. Gli chiedo cosa si aspettasse. E lui: beh, dopo essermi laureato, pensavo di prendere 10.000 sterline al mese, o almeno 5.-6.000, i primi mesi. Come dire, gli ho distrutto Lamerica...

Ma adesso viene il bello. Lui è deluso, e inizia a pensare cosa potrebbe fare. Io gli dico che per diventare ricco non è indispensabile essere laureati, anzi spesso non c'è relazione tra le due cose. Mi chiede come potrebbe fare ad aprire un negozio. Poi continua a pensare, e a un certo punto se ne scappa fuori dicendo che vorrebbe fare il prete. Ma, precisa subito, non il "prete dei neri", ma il "prete dei bianchi" (non so bene come prendere quest'affermazione). Io gli dico che beh, se è credente potrebbe essere una buona idea, è un settore in cui manca la forza-lavoro.

A questo punto lui mi chiede se credo o no. Io gli spiego che non credo. Lui mi dice di essere cristiano pentecostale, e inizia a sollevare una serie di domande filosofiche, cercando di mettermi in difficoltà. Io, un po' scocciato, rispondo colpo su colpo. Lui insiste con tono assertivo, e io inizio ad irritarmi. Lui mi spiega che vuole andare in giro a "convincere i bianchi del messaggio di Dio". Io rispondo che faccia quel che vuole, ma che deve essere tollerante verso chi non la pensa come lui.

Da allora, a parte un paio di frecciatine (ieri mi ha visto con un libro e mi ha chiesto, per fare il simpatico, se fosse la Bibbia, dicendo che dovrei leggerla), non c'è più rapporto. Tanto peggio per lui. E sì che io mi ero comportato molto "cristianamente" prestandogli dei soldi per un viaggio che doveva fare a tutti i costi. Non importa. Ma il mio anticlericalismo ne esce rafforzato.

Qui però non vorrei entrare tanto sul piano personale, ma mettere in evidenza una cosa: questa repentina vocazione nasce direttamente dalla delusione per non poter guadagnare 10.000 sterline al mese. Come al solito, la Chiesa dimostra tutta la sua (pre)potenza economica, il suo essere percepita come datore di lavoro e di benefici di natura materiale. Benefici che sono subordinati all'adesione a questa o quella "dottrina", con tutti i dogmi annessi e connessi. Ovviamente l'appeal dell'abito talare è tanto più forte quanto più si è poveri e disperati. E tanto più debole (o delimitato lungo linee di "razza") è lo Stato sociale.
Con l'etica, e con l'essere "buoni cristiani" (nell'accezione comune del termine), tutto questo a poco a che fare.

venerdì 17 ottobre 2008

Statalismo alla Berlusconi

Ieri il nostro (vostro?) Presidente del consiglio ha annunciato che varerà un programma di interventi statali nell'economia. Il progetto è quello di attingere ai soldi dell'Unione Europea per lanciare un ampio programma di investimenti nelle infrastrutture (si parla di 30-40 miliardi di euro). Inoltre, è stata lanciata l'idea di un sostegno pubblico all'industria automobilistica. Tutto questo dovrebbe essere finalizzato, secondo le versioni ufficiali di Berlusconi e del suo fido Tremonti, a sostenere la domanda (vale a dire, in sostanza, a pompare più soldi nell'economia reale per sostenere i consumi). Ci sono seri dubbi sul fatto che le cose andranno davvero così.

Anzitutto, va sottolineato che a questa politica se ne accompagna un'altra di forti tagli alla Pubblica Amministrazione: scuola, università, sanità, uffici pubblici, etc. Va considerato che le centinaia di migliaia, milioni di persone che lavorano in questi enti (maestre, professori, impiegati, medici, infermieri, poliziotti) rappresentano quello che viene tradizionalmente considerato il "ceto medio", vale a dire la "classe" dei "consumatori" per eccellenza. Penalizzare queste categorie sociali (sia in termini di retribuzioni, che di posti di lavoro) significa fare esattamente il contrario di quanto dice Berlusconi: vale a dire, comprimere la domanda, perché si avranno centinaia di migliaia di persone meno propense al consumo. Inoltre, il peggioramento di qualità dei servizi che ne deriverà comporterà costi sociali molto alti per l'intera popolazione. Peggioramento di qualità che non è valutabile in termini strettamente economici (non solo, almeno: perché penso che ci saranno senz'altro ricadute in termine di "tasse indirette", quelle che colpiscono nel mucchio, come quelle universitarie o i ticket sanitari), ma contribuisce senz'altro a un deteriorarmento della società nel suo complesso, portando a un incremento delle diesguaglianze.

A chi andranno invece i soldi degli investimenti nelle infrastrutture e nell'auto? Agli operai? E' legittimo dubitarne. Dato che il principio che è stato proposto è quello di fare investimenti dando le "grandi opere" in gestione ai vari "palazzinari" di turno (presumo possibilmente vicini al governo), chi ne trarrà beneficio saranno soprattutto questi ultimi, in termini di redditi privati. A questo si aggiunge che il piano lanciato dai governi europei per il salvataggio delle banche, non prevedendo alcuna forma di controllo pubblico sulle stesse, si risolve in un maxiregalo di denaro pubblico ai privati, ispirato al principio più scellerato: "socializzare le perdite, privatizzare i profitti". Insomma, la collettività intera pagherà gli squaletti (palazzinari e finanzieri) del capitalismo italiano.

Proprio ieri è uscita notizia che negli ultimi 30 anni in Italia la quota del PIL rappresentata dagli stipendi è calata del 13% tra 1979 e 2007. Gli stipendi reali sono diminuiti del 18% (di un quinto) tra il 1988 e il 2006. Un trend paragonabile a quello di altre società "selvaggie" come quella statunitense o quella britannica (del cui degrado sociale mi accorgo sempre più ogni giorno che passa).

La strategia del governo è chiara: deviare l'attenzione dalle questioni sociali a quelle razziali, facendo credere a tutti che la vera causa di questo degrado sono gli immigrati (da rinchiudere in scuole apposite). E "la gente" (termine inquietante), ovviamente, ci crede.

A questo va aggiunto il disastro ambientale che incombe (al Polo quest'anno le temperature autunnali sono di circa 5 gradi superiore alla media), e che ricadrà interamente sulle spalle dei derelitti della terra (africani in primis).

Insomma, sembra che stiamo andando verso un mondo sempre più ingiusto, diviso, e violento.

Una via di uscita potrebbe esserci: lanciare un programma globale di investimenti pubblici a sostegno dell'industria verde (qualcosa di simile è già stato presentato qui in Gran Bretagna), una sorta di neokeynesismo ambientale che potrebbe servire da rimedio sia alle catastrofi naturali che a quelle sociali che incombono su tutti noi.

In Italia ridurre le emissioni di CO2 secondo quanto previsto dal protocollo di Kyoto costerebbe (nel peggiore dei casi) 18 miliardi di euro all'anno, vale a dire la metà dei soldi che Tremonti e Berlusconi vorrebbero investire per le loro "grandi opere". Ovviamente quei 18 miliardi di euro non sarebbero soldi buttati al vento, ma investiti in lavori di trasformazione degli impianti industriali che potrebbero (davvero) sostenere la domanda, favorendo la creazione di posti di lavoro nuovi e ambientalmente sostenibili. Ma questo Berlusconi, troppo impegnato a pensare ai suoi affari e alla Carfagna, penso che non sia proprio in grado di capirlo. Secondo me non è solo che vuole (perché è contro i suoi interessi), è che proprio non ce la fa. Mi sa che ha guardato troppo "Lucignolo"...

giovedì 16 ottobre 2008

Libera nos a Malo...

Libera nos a Malo non è una canzone di Ligabue. O meglio, non è SOLO una canzone di Ligabue. Libera Nos a Malo è un libro di Luigi Meneghello, lo scrittore italiano che ha fondato il Dipartimento di Italian Studies qui a Reading.

Nato a... Malo, per l'appunto, piccolo paese della campagna vicentina, figlio di un artigiano e di una maestra, nel 1938 (appena sedicenne!) Meneghello si iscrisse alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Padova. In quegli anni, a Padova tra studenti e professori era abbastanza diffuso il fenomeno del "frondismo", vale a dire un atteggiamento critico, a partire da posizioni vagamente di sinistra, nei confronti del fascismo. Lo stesso Meneghello, per quello che ho capito, sviluppò in quegli anni uno spirito antifascista, che si sarebbe manifestato negli anni della guerra.

Entrato a far parte degli alpini durante la guerra, dopo l'8 settembre Meneghello scelse la strada della lotta armata, su posizioni azioniste (come ben si addiceva, in quel frangente, a un intellettuale "radicale"). Sulla sua esperienza di partigiano Meneghello a scritto un bel libro, assai poco retorico, che sto leggendo in questi giorni, I piccoli maestri.

Finita la guerra, e laureatosi in Filosofia (1945), Meneghello ebbe la possibilità di trasferirsi per un anno in Inghilterra, con una borsa del British Council. Quell'anno di studio si trasformò in un'emigrazione definitiva: l'Università di Reading gli offrì la possibilità di restare come Professore di letteratura italiana. Dietro sua iniziativa, negli anni Sessanta sarebbe stato fondato il Dipartimento di Italian studies dove sto facendo il dottorato.

Il capolavoro di Meneghello (che io non ho letto) è considerato il già citato romanzo Libera nos a Malo. Come I piccoli maestri, anche Libera nos a Malo è un libro fondamentalmente autobiografico, in cui Meneghello ricostruisce con una certa ironia la vita quotidiana sotto il fascismo nel suo paese natio. Tra l'altro, ho letto che è un romanzo illuminante sulla cultura popolare veneta e sulla sua "degenerazione" razz-leghista degli ultimi decenni.

Per chiudere:

"My studies, at Vicenza and Padua, were absurdly 'brilliant', but useless and partly damaging. I was exposed, as a youth, to the effects of a fascist education, and then somehow was re-educated during the war and the civil war, under the protective wings of the Partito d'Azione (Party of Action). I expatriated in 1947-48 and settled in England with my wife Katia. We have no children. My encounter with the culture of the English, and the shock of their language, were for me a determining factor."